Eddi Vedder:  Non è per me raccontare un semplice concerto. Tenetevele voi le scalette, non credo siano quelle che meritano di essere ricordate.
Raccontare la notte del 24 giugno, circondata da 50 mila persone, davanti un palco enorme che ha accolto al suo centro un uomo che io vedevo piccolissimo là in fondo ma sentivo così vicino, non è facile. Non è per me raccontare un semplice concerto. Tenetevele voi le scalette, non credo siano quelle che meritano di essere ricordate. Ogni parola qui va calibrata misurata scelta. Una notte che va riposta in un luogo della memoria inattaccabile all’ingiallimento, al dissolversi dei dettagli. Perchè il concerto di Eddie Vedder ne ha regalati moltissimi. Di preziosi, di rari. Li ha gettati sulla folla come fossero coriandoli, e di certo ogni singola persona presente ha potuto mettersene in tasca almeno uno. Per tenerlo lì.
Eddie Vedder è entrato in scena da solo, chitarra in mano, maglietta blu e camicia, accolto da un boato di urla e mani, propagatosi come un’onda oceanica tra i 50mila presenti, e un colpo al cuore ha dato inizio a una cascata di emozioni. Il front man della band tra le più acclamate dagli anni novanta, tra le più rivoluzionarie di quegli anni così maledettamente pieni di energia di perle rare che ancora oggi non smettono di abbagliare, era da solo, al centro di un palco così spoglio ed enorme da sembrare vuoto. Eppure se chiudevi gli occhi riuscivi a percepire tutta la sua storia e la trascinante carica della sua leggendaria band. Non so come poterlo spiegare, ma c’erano tutti, c’erano eccome. E proprio con Wishlist, una delle prime canzoni che ha aperto lo spettacolo, cantata all’unisono da tutti i 50mila, è cominciato il mio concerto.

Occhi incollati a quel puntino là in fondo e un tuffo a picchetto nei miei anni 90, quando ascoltavo i Pearl Jam sdraiata su un prato in Inghilterra, un solo auricolare (l’altro ce l’aveva il Caso), il cielo sopra di noi e i nostri 16 anni. Guardarsi intorno durante il concerto voleva dire riconoscersi nelle tante facce sconosciute attorno a me. Occhi lucidi e fissi, sorrisi sospesi, braccia alzate, dita a puntare pianeti lontani, abbracci stretti. E quanti baci ho visto! Quante coppie a cercarsi e stringersi durante le canzoni, mani in faccia e sui culi! Anche per questo amo i concerti, la dimensione di intimità prima circoscritta e in qualche modo difesa, una volta superati i tornelli d’entrata diventa condivisa, diffusa.

Ci si guarda e si ha l’impressione che quell’emozione e allegria che ti pervade è la stessa identica che sente il ragazzo lì in fila al bagno chimico, la ragazza spalmata a terra e circondata dagli amici, la coppia silenziosa e composta in attesa dello spettacolo, il sessantenne carico a pallettoni, con la maglietta del primo album dei PJ. E allora ci si sorride e si trova un pretesto qualunque per scambiare due parole, un modo come un altro per dirsi che in questo sterminato campo si è vicini, che oggi davvero siamo insieme. E poi i tuoi amici. Gli occhi che osservi e a cui ti aggrappi da anni. Dentro cui puoianticipare le lacrime all’attacco di Last kiss.

Dentro cui vedi la stessa commozione nel sentire quel pezzo che tanto ha significato nella sua vita, dentro cui puoi leggere sentimenti intimamente confessati ma che in quella magica sera riescono ad essere manifesti, alleati, tenui. E allora Eddie Vedder è stato in grado con la sua musica, con le sue lacrime al termine di una Black che per certo ha alzato i peli sulla pelle di tutti noi, a ricordarmi una cosa: che siamo umani. E profondamente siamo tutti uguali. Nel luogo più buio, siamo davvero simili. E a sbattermelo in faccia con quella potenza è stata proprio la musica e ciò che di magico propaga con le sue onde. Ma ancor di più la musica e la voce di Eddie Vedder, così intensa, così vibrante, così fonda. E le parole scandite tra una canzone e l’altra, il suo corpo sempre in movimento, il suo mostrarsi così tanto sorpreso di tutta quella gente, il riferimento ripetuto alla sua band, la dedica ai Soundgarden nel momento in cui non ha resistito a condividere la sua immancabile bottiglia di vino con i ragazzi sotto palco, non prima di averla alzata al cielo brindando a quella notte e a San Giovanni.

La romantica ed emozionata dedica alla moglie, “I met an angel, and she said love me!” che ha restituito un uomo senza paura di esprimere i suoi sentimenti più intimi a una platea sterminata, mostrando così nel contempo di essere davvero un uomo come un altro, che un giorno si innamora e il suo sguardo sul mondo non è più lo stesso.

E se è vero che la musica tutta ha un potere immenso, che è in grado di avvicinare persone lontane, di far tornare qualcuno che non c’è più, di dare a volte la forza di fare un passo, di dire parole che le labbra non riescono a pronunciare, di rompere gli argini di sentimenti e paure, di far divertire fino alle lacrime, di percepire il corpo così vivo da sentirsi energia pura, è vero anche che la notte del 24 giugno, sotto il cielo di Firenze, ha visto accadere qualcosa che è andato oltre tutto ciò. E un pezzettino in più si è aggiunto al significato che ho sempre dato alla musica, un sospetto forse, un’intuizione sottile, che fatico a spiegare, ma che indubitabilmente mi fa avere uno sguardo migliore, forse più ironico, su quello che siamo.

Sulla variegata umanità, meravigliosa e così complicata, che abita questa strana palla sospesa nel vuoto. Un’umanità che non smette di lottare per ciò a cui aspira, mettendo in campo e inventandosi infiniti canali diversi per urlare al cielo ciò che ancora non c’è. Che si alza ogni mattina riuscendo a immaginare, nonostante tutto, che qualcosa possa cambiare in meglio, che c’è ancora tanto da fare e che forse davvero ogni singolo e piccolo contributo ha un significato enorme, capace di determinare e suggellare quell’unione che ho visto intorno a me. Davanti la poesia delle parole incastonate nelle canzoni di Into the wild, cantate con un trasporto e un’intimità da brividi, è stato chiaro per me che l’unico modo per dare senso e veicolare davvero quel seme di ribellione che si nasconde in tutti i cuori giusti, è non scordarsi della poesia che permea la nostra vita, la nostra singola piccola meravigliosa storia.
L’enorme stella cadente dalla scia lunghissima e verde, che ha sorpreso tutti noi proprio alle battute finali di un’Imagine da lacrimoni, voglio credere sia il segnale misterioso proveniente da un futuro che ancora non conosciamo, un segnale criptato lanciato sul nostro cielo la notte del 24 giugno, per dirci “Ei voi! Avete ancora tanto per cui stupirvi e sorprendervi.
Non crediate di aver capito tutto. Che questa sera su quel palco c’era un mondo che non c’è. Ma non per questo è meno vero.”

E così, quando tutto è finito, e la musica si è spenta sulle note di una memorabile Hard Sun che ha sorretto Eddie Vedder nel suo meraviglioso serfare sul pubblico in visibilio, allontanandomi dal palco ho sentito la voglia di fare una sola cosa. Ringraziarlo. Di cuore.