Esce oggi per Hellnation Records il nuovo lavoro dei Dalton, Papillon, recensito in esclusiva per Radiosonar.net da Giuppe l’Araldo (Search & Destroy Radio).

Papillon. Come il capo di abbigliamento più elegante e raffinato.
Papillon, come la farfalla ritratta in copertina, animale che vola spensierato da un fiore all’altro senza preoccuparsi che da lì alla sera la sua vita finirà.
Ma anche, forse soprattutto, come il personaggio di un famosissimo film omonimo, la cui più grande ragione di vita è evadere dal carcere a qualunque costo per riprendersi la sua libertà ingiustamente sottrattagli, pur sapendo che una volta fuori si troverà costantemente in bilico tra l’incertezza, la felicità, il sopruso, l’amicizia, l’amore, l’odio, la speranza e la morte.

Tutti i lavori dei Dalton contengono questi ingredienti, tanto da farli sembrare sinfonie discordanti di gusti contrastanti.

Non avevamo mai sentito una canzone come “Marienne”, la cui impalcatura, al contrario di quella probabilmente traballante da cui cade lo sfortunato operaio protagonista della storia, è di una compattezza e solidità impressionante, non solo a livello musicale (secondo noi il miglior pezzo dell’album), pur parlando contemporaneamente di amore, di libertà, di lavoro e di morte.

L’amalgama di questa, come di tutte le altre canzoni qui contenute è nelle liriche, in cui sussiste sempre quel tocco di umanità particolare, elegante, anche quando il cantato tradisce volontariamente la propria dialettale romanità, un tocco che sa essere a volte ironico, come nel caso di “Marienne”, a volte duro, come in “In disparte messi da parte (Sottoproletariato)”, a volte disperato, nostalgico, leggero, ebbro, scazzato, ma che non ha vergogna di mostrarsi per ciò che è, alla faccia dei muscoli da mostrare sempre e comunque, caratteristici della scena Oi! e punk da cui provengono loro e proveniamo un po’ tutte e tutti.

Tutti i loro dischi, e questo in particolare, riflettono di un equilibrio fragile come il volo di una farfalla, contraddittorio, imperfetto, anzi precario, per utilizzare un termine più adeguato alla loro estrazione sociale e musicale, quella della working class.

I Dalton cantano di disperazione etilica, di amori finiti o solo sognati, di fughe da lavori infami, di voglie di orizzonti nuovi o di aneliti a farla finita, con una forza “romantica” nel senso letterario del termine, seppur disincantata, ironica, a loro modo leggera anche quando contiene critiche feroci al resto del mondo, proprio come le invettive più o meno esplicite nei tipici sonetti del Belli: è proprio con il grande poeta romanesco che si apre il disco, un sonetto ferocemente anticlericale recitato dal grande Marco Giallini in cui la vena sarcastica del poeta riesce come sempre a strappare un sorriso tra una lacrima amara e l’altra.

E’ un mondo ingiusto, in cui la ricerca dell’equilibrio è un’impresa pressoché impossibile, ma anche un mondo in cui vale la pena vivere: i Dalton ci insegnano che per camminare sopra quel filo è necessaria la leggerezza, più che il muscolo. Ma ci insegnano anche come cadere: perché quelli come noi cadono spesso pesantemente, ma possono sempre rialzarsi, con un sorriso e un elegante, sferzante vaffanculo.

Giuppe l’Araldo per Search & Destroy Radio