Miles Davis è uno di quei personaggi dei quali non ci si stancherebbe mai di sentir parlare.

Articolo a cura di Claudio Contini

D’altronde, oltre alla sua attività musicale che ha regalato al mondo bellezza ed innovazione per circa cinque decenni, c’è
una vita personale che da sola sarebbe sufficiente per la stesura di una serie TV di diverse stagioni. Nello stesso tempo, la sua autobiografia, scritta con Quincy Troupe, è talmente vera, diretta ed esauriente al punto da far pensare che ogni altro tipo di contributo sia superfluo: è uno di quei libri che vanno tenuti sul comodino ed aperti ogni giorno su una pagina a caso per rileggere uno degli infiniti aneddoti che hanno
coinvolto il più grande trombettista di tutti i tempi. C’è materiale drammatico, comico, sociale, politico, sentimentale, erotico e chi più ne ha ne metta. Non è un caso che i diversi tentativi eseguiti fino ad oggi, che siano film o speciali, hanno sempre mediamente deluso le aspettative.

A provare a sviare da questo trend questa volta è il documentarista newyorkese Stanley Nelson

Pluripremiato sia in sedi accademiche che cinematografiche, e particolarmente attivo nel campo della cultura afro-americana. Il suo Birth Of The Cool è un tentativo di catturare Miles a tutto tondo cercando di equilibrare la parte musicale con quella personale. Lo stile è molto classico, con video e fermi immagine che si alternano ai contributi di musicisti, amici ed ex mogli del trombettista di St.Louis. Il tutto narrato dalla voce dell’attore e doppiatore Carl Lumbly, il quale legge brani dell’autobiografia di cui sopra riproducendo, in maniera molto riuscita, la famosa voce roca di Miles.

Per chi ha letto il libro o comunque per chi in qualche modo conosce la storia di Davis

Molte delle informazioni risulteranno già note. Ma il regista è abbastanza abile nell’alternare nozioni più basilari a note di carattere più specifico, riuscendo così a catturare l’attenzione di ogni tipo di spettatore. Nella prima parte del documentario ci si sofferma a lungo  sull’approdo a New York ed il suo inserimento nel giro jazz che conta, fino alla sua progressiva affermazione come artista di spessore, senza dimenticare l’importanza fondamentale del suo viaggio a Parigi. Lì Miles ha preso consapevolezza di quanto il pubblico lo potesse amare senza filtri, quelli che nell’America razzista degli anni 60 lo tenevano ancora ai margini, e il suo amore a prima vista con Juliette Greco è ben descritto anche per merito della presenza di testimonianze dirette dell’attrice francese.

Un’altra donna importante della vita di Miles Davis è stata la moglie Frances Taylor, il cui lungo contributo è probabilmente la parte più pregna di nuovi spunti di tutto il documentario, perché non solo dà voce ad una persona che è stata vicina al protagonista per dieci anni (i più lunghi per una donna al suo fianco) ma anche perché dà modo di affrontare tutte le debolezze di Miles, dalla gelosia possessiva alla varie dipendenze, con lo sguardo esterno di chi ne ha subito le dirette conseguenze.

Molto belle sono anche le testimonianze degli amici storici e dei figli, a chiudere il quadro sul Miles Davis uomo

Ed è un quadro affascinante, complicato e controverso. Poi, ovviamente, c’è la parte musicale che è presente in maniera forte e decisa. Ad alternarsi davanti la telecamera componenti dei suoi gruppi, di diverse generazioni, da Jimmy Heath e Jimmy Cobb, passando per Herbie Hancock, Wayne Shorter e Ron Carter, fino ad arrivare a Marcus Miller e Mike Stern e di conseguenza si ha non solo il modo per ripercorrere il suo incredibile viaggio nella trasformazione di un genere ma anche di ritrovare quelli che sarebbero nel tempo diventati protagonisti assoluti del jazz, da John Coltrane a Tony Williams (e tanti altri) scoperti e lanciati per mano di Miles, dotato di grande orecchio e grande intuizione.

Le due ore di Birth Of The Cool volano, e non so se per mano dell’autore o grazie all’immenso archivio che la vita di Miles fornisce, ma il tutto risulta assolutamente in grado di catturare lo spettatore. Stanley Nelson è molto rispettoso e interferisce poco o nulla, come detto il montato è molto semplice e privo di effetti speciali. Come a dire, Miles Davis si racconta e si dirige da solo. Anzi, se fosse stato ancora in vita, chissà probabilmente avrebbe realizzato un documentario su se stesso proprio in questo modo.
Poi se a qualcuno venisse in mente di farne una serie TV, noi aspettiamo fiduciosi….

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