Foto di Sarah Naomi Lewkowicz
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Ne abbiamo parlato, ci siamo guardati negli occhi, siamo stati in silenzio, lasciando che la cosa potesse entrare meglio nelle nostre coscienze. Si è parlato di un mondo che ci appartiene, quello degli spazi sociali, di un senso che diamo alle azioni che portiamo avanti e che chiamiamo antifasciste, di una percezione di fratellanza e sorellanza, di un’unione che sentiamo incondizionata, legata senz’altro all’idea del mondo che ognuno ha singolarmente e che riconosce nell’altro. Abbiamo provato a guardare in faccia quella violenza, recuperandola e ricalcandola dal terribile archivio di immagini e racconti di cui è piena la nostra memoria, la nostra storia. Quella umana.
E ci ha fatto male.

Siamo sbigottiti schifati indignati arrabbiati. Siamo determinati a dar voce a questo rifiuto che sentiamo montare da dentro. Il rifiuto di una violenza ignobile e non integrabile, che fatichiamo davvero a ricostruire e immaginare. Il rifiuto della scia di violenza che l’atto stesso ha provocato. Dalla circolazione dei video a quello che già sappiamo è stato detto e chiesto alla vittima in aula, in sede di processo. Le minacce dei “compagn@”, gli insulti e le provocazioni da più parti, l’allontanamento da un luogo che si credeva sicuro, un luogo amico. Ma sicuro da cosa? Amico di chi?
Se uno spazio che si definisce antifascista è stato capace di diventare un luogo immerso nell’omertà e nella melma della contraddizione, della viltà, della codardia, di una cieca e imperdonabile crudeltà, è necessario aprire gli occhi. E se non si è abbastanza coraggios@ per farlo, bisogna prendere atto che le orecchie non è possibile chiuderle. Che non si può far finta di non capire quello che ci succede intorno. Che non è accettabile non prendere posizione, e non lo è nella misura in cui ci definiamo in un modo, in un preciso e determinato modo. Essere antifascit@, definirsi compagn@, chiudere il pugno e puntarlo al futuro per le strade che attraversiamo è una grossa, enorme responsabilità. In primo luogo verso noi stess@ e poi verso la collettività con cui sfiliamo per le strade. Con cui difendiamo i nostri spazi liberati. Con cui resistiamo ai molteplici tentativi di renderci polvere in questo deserto culturale e sociale. Essere antifascist@ vuol dire prendere la parte di chi è oppresso. Vuol dire arginare e lottare per contenere la prepotenza e la violenza di chi si crede migliore, di chi vuole imporre le sue regole, di chi vuole a tutti i costi conservare i privilegi a scapito di altr@. Di quegli uomini che si credono migliori, più forti, più furbi, più capaci delle donne. Che prevaricano su di esse. Di quegli stessi ignobili uomini che uomini non sono. La violenza sessuale, la violenza sulle donne è una prevaricazione che non può non essere arginata e non condannata da chi si reputa antifascista. E se in uno spazio che si definisce tale è avvenuto un così grave fatto, c’è da chiedersi se possa esistere un’ideologia politica realmente scevra dalla possibilità di questo tipo di violenza. La discussione dunque non può arrestarsi al solo piano politico, ma deve comprendere per forza altri piani, più ampi, più personali e profondi forse. Porsi questo tipo di domanda non è facile, e non sappiamo se saremo in grado di rispondere. Ma riconoscere di stare in un mondo complesso dove le cose che succedono ci gettano spesso in contraddizioni che neanche noi sappiamo come osservare e a volte come gestire è il primo solo passo per provare a capire cosa sia davvero giusto e cosa no, cosa sia davvero in sintonia con ciò che pensiamo di credere e a cui crediamo di aspirare. Ragionare sulle relazioni più vicine a noi, osservare le dinamiche relazionali che poniamo in essere nei nostri spazi diventa allora fondamentale. E se è vero che un genuino, saldo e consapevole antifascismo, così come l’antisessismo e l’antirazzismo, muove il nostro movimento verso progetti che sanno davvero di libertà e rispetto, il tutto proiettato a un mondo migliore di quello iniquo che ci è capitato, è altresì importante riconoscere la nostra incertezza, la nostra fragilità nell’affrontare determinati argomenti, che hanno un peso collettivo ma che ci toccano profondamente come singoli. Guardare in faccia questa nostra vulnerabilità, ragionare e mettere in campo discussioni e confronti sinceri e aperti al fine di comprenderla, vuol dire responsabilizzarsi verso noi stessi, verso i compagn@ con cui ogni giorno lottiamo, verso il movimento tutto che è composto da ogni singola esperienza e verso quello stesso mondo che vorremmo diverso, e che forse su di noi proietta ancora una meravigliosa speranza di cambiamento.

Alla ragazza vittima della violenza vorremmo mandare la nostra più totale e sincera solidarietà, e farle sapere che non è sola. Che la sua storia non la dimenticheremo. Che non consideriamo uomini e tanto meno compagni coloro che hanno messo in atto tale obbrobrio, lo abbiamo già detto ma qui lo rimarchiamo, fate ribrezzo. Condanniamo poi fortemente e con gli occhi fissi su chi ne è stato complice, l’omertà e il silenzio che sono stati gettati su questa storia. Condanniamo chi ha strumentalizzato il fatto, chi non ha avuto il coraggio di capire cosa stesse succedendo. E condanniamo anche chi da questa storia non ne trarrà uno stimolo per mettersi in discussione e per ragionare con uno sguardo nuovo sui rapporti di genere.