Recensione a cura di Davide Villa
Domenica scorsa, che poi era il 18 di Settembre, sono andato al Forte Prenestino. Sticazzi, direte voi, ma vi sbagliate. La causa era bella, si sostenevano gli spazi sociali e, per farlo, erano stati chiamati in causa due gruppi che, nell’alternative italiano, qualcosina contano. Parliamo degli Zu, romani per due terzi e molto rumorosi, e degli Afterhours, che, volenti o nolenti che siate, rappresentano un bel pezzo di storia del rock italiano più sporco, almeno finchè non si sono rincoglioniti, decidendo di continuare a far dischi piuttosto che sciogliersi, per poi riprendersi un pochino negli ultimi mesi. Di sicuro, quel che agli After non è mai mancata è stata la presenza live, dei veri e propri animali da palcoscenico.
Ingressi limitati e, caso più unico che raro per un csoa, in prevendita (nel senso che si potevano acquistare prima, non che si pagassero di più, sia ben chiaro) per quello che, sin dal suo lancio aveva assunto le tinte d’un vero e proprio evento, un po’ per nostalgici come chi vi scrive, che ricorda con la lacrimuccia gli incendiari live di inizio 2000 al (fu) Villaggio Globale, ed un po’ per neofiti che, con l’occasione, magari potevano mettere piede per la prima volta in uno spazio occupato. Ecco, a dire il vero il pubblico mi sembrava grosso modo dai 30-35 in su, però le intenzioni buone c’erano tutte e quindi chi se ne frega.
Si parte presto da casa, c’è la Roma alle 20 e 45 e, diciamocelo, in quei casi o si trova uno schermo per vedersi la partita, o si rischia di dire, tra i denti: ‘vabbè, ce vengo la prossima volta…’. Puntuale arriva la sconfitta, condita da un diluvio che rende la scena sempre più decadente nella sua splendida bellezza da eterni perdenti underground. Non è ancora stato fischiata la fine del match che, ecco, sotto ettolitri di acqua dal cielo, arrivare prepotente ed irruento il noise a tinte grind degli Zu. Un muro di suoni e di volumi che, ai non avvezzi, avrà fatto rizzare i capelli ed a tutti gli altri qualcos’altro. I tre macinano, senza soluzione di continuità, una miscela di tempi dispari e distorsioni che, memori della lezione 80s e 90s, riesce ad essere attuale anche nel 2016. Formazione bizzarra: sax, basso (praticamente una chitarra per quanto è medioso; praticamente un cantiere per il traforo dell’Everest per quanto riempie) e batteria completamente folle e geniale. Il pubblico, non aiutato dalla pioggia battente, è riparato sotto le tettoie ed i tunnel, ascolta in lontananza, mente alcuni temerari ed incoscienti, tra cui me, armati di ombrelli modello spiaggia (‘Aò, ma che te sei portato, l’ombrello da lord inglese?’) si lasciavano cullare, piedi saldi nel fango ed headbanging accennato, dalle dolci melodie del terzetto laziale.
Finiti gli Zu, dopo una breve pausa concessa da Giove il Pluvio, ci sono un paio di interventi sul palco, perchè è pur sempre per il sostegno agli spazi che ci siamo trovati tutti lì, e poi arriva il momento tanto atteso, quello che ti catapulta immediatamente nel 1999, quando i capelli erano tutti e neri e si riusciva nella non facile impresa di vestirsi peggio che adesso. Inizio intimo, chitarra acustica per Manuel, ma poi è un crescendo. I pezzi composti da Ballate per Piccole Iene in poi, secondo chi scrive, fanno anche un po’ cacare, però i ragazzi suonano. Avoja se suonano. Si scalda l’ambiente per 3 4 canzoni ed ecco subito snocciolare i primi amarcord, cantanti dal pubblico che, evidentemente, non aspettava altro. Mentre tra te e te pensi: ‘chissà se ci sono fan di X Factor qui in mezzo’ e ‘però ancora je l’ammollano’, l’atmosfera prende sempre più fuoco e, dalla metà in poi, è un continuo karaoke, soprattutto con l’encore. Agnelli, che aveva iniziato con t shirt e giacca di pelle, esce fuori a cantare VERITA’ CHE RICORDAVO a petto nudo, dimenandosi, nonostante la cinquantina, come Iggy Pop ai bei tempi ed aiutandoci a scordare che, cavolo, nel giro di 3-4 ore sarebbe suonata la sveglia che ci avrebbe condotti a servire il capitale. La sezione ritmica è potentissima, la difficile sostituzione dello storico drummer Giorgio Prette è ben retta da Fabio Rondanini, dietro le pelli soprattutto con i Calibro 35. Stefano Pilia, chitarrista degli After da un paio d’anni, è una sicurezza e Xabier Iriondo è il solito geniaccio un po’ folle e scalmanato sul palco. Si è persa la componente punk e sporca dei bei tempi ,ma l’esecuzione e la professionalità sono ormai ad un livello altissimo, sia pur un po’ troppo leccato per i miei gusti.
Due ore di live, bestemmie per il lunedì lavorativo e qualche rimpianto per alcuni classici non snocciolati, però ce ne andiamo col sorriso sulle labbra e pensando che, tutto sommato, la coscienza dopo X Factor, Manuel se la è lavata, anche se ‘Sui Giovani d’oggi…’ non l’ha mica suonata.
foto ufficiali dalla pagina ufficiale degli Afterhours