23 October 2021  /  A Sud, Mari

L’Italia è sempre più drammaticamente battuta da eventi estremi. In dieci anni sono stati 946 gli eventi estremi che hanno interessato 507 Comuni diversi.

Secondo il Climate Risk Index 2020, pubblicato annualmente dalla ong tedesca Germanwatch, che prende in considerazione il periodo 2000-2019, l’Italia è al 22° posto per vulnerabilità climatica e addirittura al 6° per numero di morti registrati in eventi climatici estremi.

Per parlare di giustizia climatica prendiamo in parte a prestito e leggiamo il testo pubblicato nel sito Giudizio universale e che racconta anche l’azione intrapresa di chiamare a giudizio lo stato italiano che ha preso appunto il nome di Giudizio Universale.

Più di 200 ricorrenti, tra cui 162 adulti, 17 minori (rappresentati in giudizio dai genitori) e 24 associazioni impegnate nella giustizia ambientale e nella difesa dei diritti umani hanno deciso infatti di intraprendere un’azione legale mai intentata prima in Italia citando in giudizio lo Stato per inadempienza climatica, ovvero per l’insufficiente impegno nella promozione di adeguate politiche di riduzione delle emissioni clima-alteranti, cui consegue la violazione di numerosi diritti fondamentali riconosciuti dallo Stato italiano. L’azione legale è promossa nell’ambito della campagna di sensibilizzazione intitolata “Giudizio Universale”

Parlare di giustizia climatica è molto difficile perché i cambiamenti climatici non sono né democratici né giusti. Non è vero che i cambiamenti climatici sono una livella che si abbatte su tutti allo stesso modo. Chi inquina di più quasi sempre non è il primo a essere colpito dalle conseguenze più gravi della crisi climatica. Sono infatti le fasce di popolazione più svantaggiate, i Paesi meno industrializzati, le comunità più dipendenti dalle risorse naturali, i fragili e gli emarginati, i poveri, i migranti, le donne e i bambini, le prime vittime dei cambiamenti climatici.

Dobbiamo riscrivere e praticare nuove relazioni tra le specie, riconoscere la terra, l’aria, l’acqua le montagne, le piante, gli animali non umani come corpi vivi e non schiavizzabili.

Dobbiamo interrompere le gerarchie di dominio, riconoscere la violenza quella che riconosciamo sui corpi delle donne, sui corpi trans, intersex non binari di ogni altro genere ma che non vogliamo vedere quando la agiamo su altri corpi non umani ..

Lottiamo perché non è più tempo di avere “sviluppo”, “produzione”, “profitto” come punti di riferimento del sistema. Non si può prescindere dal perchè, come e cosa si produce ma soprattutto delle conseguenze delle produzioni sui corpi tutti e sulla terra. Rimettere al centro la produzione e distribuzione alimentare, dare vita a un immaginario e a pratiche alternative fino ad ora marginalizzate. Assumere l’obiettivo di uno stare nel territorio ribaltando il concetto di possesso, risorsa, abuso, uso violento di corpi e terra. 

Lottiamo perché le pratiche di mutualismo e solidarietà che si sono così ben espresse dal basso durante il lockdown assumano valenza collettiva (dai mercati alternativi, chilometro zero, riorganizzare luoghi di riciclo, baratto scambio, agli orti urbani, al riciclo, all’occupazione di spazi per la loro rigenerazione)

Il nostro esserci con i corpi, le nostre relazioni, il nostro parlare e soprattutto il nostro ascoltare, l’apprendere dalle altre pratiche di resistenza, il contaminarci, il costruire cammini comuni con le popolazioni indigene che da secoli difendono i territori contro estrattivismo e colonialismo uscendo da un concetto solidaristico e assumendo tutta la radicalità di una urgente e necessaria lotta al sistem.

Ne parleremo al Climate Camp di Roma dal 28 all’1 novembre

QUEERzionario del 23/10/2021 – G di Giustizia climatica