Se Betty avesse cantato oggi, sarebbe come Madonna o come un Prince al femminile. E’ stata lei a dare il via a tutto quello che c’è adesso, quando ha cominciato a cantare, era avanti rispetto ai suoi tempi

Dall’autobiografia di Miles Davis, 1989

Ci sono personaggi a cui basta pochissimo per lasciare un segno indelebile nella cultura popolare, e a Betty Davis sono bastati tre album di hard funk usciti negli anni 70, che per altro ai tempi passarono criminalmente inosservati dal grande pubblico. Ma quello che c’era nei solchi di quei vinili non era soltanto grande musica, per altro creata insieme alla collaborazione di musicisti di livello altissimo (da componenti di Sly & The Family Stone a quelli di Santana, fino alle Pointer Sisters) ma una vera rivoluzione culturale che prendeva forma nell’atteggiamento, nell’immagine, nel carisma.

Parliamo di una ragazza nera intorno ai 25 anni che si presentava con i capelli afro, stivali di pelle fino al ginocchio, shorts e reggiseni colorati, dominante sul palco, tra urla e movimenti erotici.

Una che a poco più di vent’anni e con un solo anno di matrimonio aveva cambiato il modo di vedere le cose non a uno qualsiasi, ma a Miles Davis che tra le altre cose ha anche dichiarato: “fu un anno pieno di novità e sorprese, che mi aiutò a capire in quale direzione andare sia musicalmente che nel mio modo di vivere”. E d’altronde Betty era una i cui concerti spostavano l’attenzione anche di molti vip afro-americani in vista, affascinati dalla sua personalità e dal suo modo assolutamente fiero ed unico di interpretare l’immagine del “black power”.

E questo ovviamente non poteva essere accettato con facilità dall’industria musicale. In una delle sue ultime interviste ha dichiarato che pur avendo messo tutta se stessa nella musica, qualche bianco dietro una scrivania era sempre pronto a dirle che doveva cambiare look, cambiare suono, altrimenti niente contratto. Cosa che si è materializzata presto perché purtroppo dopo i tre album, usciti tutti tra il 1973 ed il 1975, Betty Davis non ha avuto più alcuna opportunità per registrare altra musica.

Ed a quel punto, in maniera decisa e repentina, si è completamente ritirata dalle scene, tornando a Pittsburgh, città nella quale era cresciuta, lasciando ben poche tracce di se stessa.

Una delle poche testimonianze che la ricordano e la riportano protagonista, almeno con la voce perché ha deciso di non apparire in video, è un documentario del regista inglese Phil Cox (Betty Davis: They Say I’m Different) nel quale traspare una sua apparente tranquillità che fa da contrasto ad una sottile ma ben percepibile sofferenza derivante da una vita che poteva vederla protagonista più a lungo invece che reclusa lontana da quelle luci che ha nei suoi anni di gloria ha reso ancor più luminose.

Fortunatamente la sua arte rimane presente indelebilmente e vive anche nell’influenza che ha avuto su tanti artisti che sono venuti dopo (da Rick James a Prince, da Lauryn Hill a Jeanelle Monae), sia musicalmente che esteticamente.

Ma per godere al massimo dell’essenza di Betty Davis non c’è cosa migliore che ascoltarsi a ripetizione la sua musica.

A partire dal suo debutto omonimo (Betty Davis, 1973) che mette subito in chiaro con chi si a che fare: funk tiratissimo guidato dalle impressionanti linee di basso di Larry Graham e pezzi dai testi che non girano intorno al concetto “sono una donna e qui comando io, sessualmente e non solo”. “Game Is In My Middle Name”, “If I’m Luck You Might Get Picked Up” e “Your Man My Man” sono forse i tre esempi più emblematici di una mezz’ora di musica di qualità assoluta. Qualità che si ripete e nei suoi picchi addirittura rischia di aumentare nell’album successivo uscito un anno dopo (They Say I’m Different, 1974). “Shoo-B-Doop and Cop Him” e “He Was a Big Freak” infatti sono un manifesto della potenza femminile senza avere certi clichè del femminismo.

Semplicemente, sono pezzi in cui Betty è se stessa e te lo sputa in faccia con stile, potenza e sensualità.

E l’album segue le orme del precedente anche a livello di sound, nonostante un paio di superstar siano state sostituite da esordienti (ma il basso di Larry Johnson fa il suo sporco lavoro e non fa rimpiangere quello di Graham). Nell’ultimo album del trittico (Nasty Gal, 1975) l’atmosfera si fa persino più estrema. Betty sembra voler far sentire la sua voce in maniera ancora più forte ed il groove accompagna l’hard funk verso il rock ed il proto-punk. I testi si fanno ancor più provocatori sia dal punto di vista erotico (la title track su tutte) che da quello sociale (“Dedicated To The Press”). Inoltre nell’LP è presente l’atipica e bellissima ballad “You And I” scritta insieme a Miles, che dona eleganza ad un album che sarebbe dovuto essere la definitiva esplosione per Betty e che invece ha segnato la fine della sua carriera.

Vale la pena segnalare anche la raccolta di alcune registrazioni (Columbia Years 68-69) avvenute durante l’anno passato con Miles, che aveva portato la giovane Betty nello studio dove si trovava la sua band dell’epoca. Con musicisti jazz d’eccezione come Herbie Hancock, Tony Williams e Joe Zawinul e Miles a dirigere, Betty Davis faceva già intravedere il suo stile ed il suo talento, ovviamente in un modo molto più tranquillo di quello che sarebbe successo dopo. Sono registrazioni che a tratti sembrano poco più che prove ma vale la pena assolutamente di ascoltare un documento storico che aggiunge un altro tassello alla discografia di un’icona che ci mancherà.

R.I.P. Betty Davis 1944-2022

A cura di  Claudio Contini

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