Forse per parlare di Achille Lauro senza scadere nei luoghi comuni che gli vengono appiccicati addosso da quando è diventato uno dei personaggi più noti del paese, bisogna parlare della sua musica, evitando giudizi morali, estetici o comportamentali.

E soprattutto senza scadere in preconcetti, assolutamente a portata di mano quando la dimensione dell’artista è superata da quella del fenomeno mediatico, ma senza dubbio deleteri alla comprensione di quelle che sono i frutti principali del suo lavoro: le canzoni.

Achille Lauro per altro non può esser tacciato di parsimonia quando si tratta di darci spunti in tal senso, visto che tra i progetti principali e quelli collaterali, in meno di due anni ha prodotto quattro titoli, nei quali ha messo dentro molta della sua visione artistica esplosa dopo gli esordi tra rap e trap, inaugurata con la partecipazione a Sanremo 2019 in cui presentò Rolls Royce.

Prima all’immaginario glam e rock di 1969, poi all’elettronica/dance di 1990, ed infine allo swing di 1920.

Ma è nel suo nuovo lavoro, che non a caso ha per titolo il suo nome di battesimo, in cui Achille Lauro sembra esprimere a pieno se stesso, come se fosse giunto al termine di un percorso durante il quale ha raccolto ascolti, immagini ed esperienze per metterle insieme con in un collage della sua anima.

Il bello, che però rischia di essere anche il brutto, è che l’anima di Achille Lauro ha infinite sfaccettature.
E come sottolineato dalla nostra Nella Cinderella (grazie per l’input) “in questo disco c’è proprio dentro tutto lui”.

Ecco, ora sta all’ascoltatore sapersi districare tra i mille labirinti di un’anima a tratti leggera, a tratti turbata, a tratti timida, a tratti ribelle.

A voler essere cattivi, si potrebbe dire anche sconclusionata. Ma la verità è che Lauro ci sa fare, così come i musicisti ed i produttori che ha alle spalle, ed il suo non chiudersi in un genere non preclude alla sua personalità di prevalere.

 

Musicalmente il disco fila dritto dal primo all’ultimo pezzo, esattamente come conviene a un buon album di musica popolare ben confezionato, capace di sfuggire alle banalità del pop plasticoso ma riuscendo nello stesso tempo a piazzare una manciata di potenziali hit con ritornelli che rimangono in testa dopo il primo ascolto. L’apertura è con Solo Noi che è una perla di sensibilità nel suo descrivere il disagio e la voglia di rivalsa di chi viene dal basso, condensata in un ritmo malinconico che strizza l’occhio al pop rock. Ecco, questa cosa di strizzare spesso l’occhio è il terreno in cui Lauro gioca le sue carte in maniera migliore, perché l’assiduo citazionismo rischia di diventare ridondante alla lunga, invece qui viene dosato in maniera vincente.

La dimostrazione è Latte +, trascinante groove funkysoul condita da un’evidente omaggio a Prince, col riff di Kiss ripreso paro paro e messo lì ad elettrizzare il refrain. Le immagini quasi cinematografiche dipinte dal testo di Lauro viaggiano come un missile tra il LALALA che ci ritroveremo a cantare a più riprese. Marilù è cantautorato italiano allo stato puro, in cui l’artista romano cavalca la sua indole femminista spesso messa in luce, e che anche qui culmina in un altro ritornello che si tatua nel cervello.

La title track va oltre l’operazione-canzone, e ci porta in una sorta di autobiografia di Lauro, nella quale la sua carriera viene ripercorsa con tanto di citazioni di suoi lavori seminali che ormai sembrano lontani anni luce, quali Barabba e Pour L’Amour.
Un brano di classe assoluta in cui le influenze del Vasco Rossi dei tempi d’oro vanno a mixarsi con una scrittura moderna ed urban.

Se Femmina, di nuovo un’escursione nel mondo del gender, è ben scritta ma non regala particolari emozioni, il lato B dell’album di infiamma con una tripletta di alto livello, costituita da A Un Passo Da Dio, in cui si affaccia timidamente il richiamo di Zerolandia, ma soprattutto da due mazzate quali Barrilete Cosmico e Generazione X. Nella prima Lauro si avvale di una produzione spaziale, dove il suo viaggio diventa cosmico non solo grazie all’omaggio a Maradona ed al telecronista che lo definì appunto “barrilete” ma per un sound che spazia dal proto-punk all’elettronica creando un’atmosfera incredibile. Atmosfera che ritorna in Generazione X, che è in assoluto il testo più “giovane” del lotto la cui anima ribelle viene elevata a nobile dalla performance di tutti, dal cantante alla band che oscilla tra punk e grunge.

Fino a qui il disco tratta di tutto tranne che di amore, ed allora ecco il trittico finale in cui il quadro si dipinge del rosso, prima quello più sensuale e quasi erotico di Pavone, poi quello più romantico di Stupide Canzoni D’Amore (forse il pezzo meno interessante del disco) e a chiudere con quello più sbarazzino di Sabato Sera.

Lauro arriva alla fine ottenendo esattamente quello che voleva:

Ovvero presentare un sound facile che allo stesso tempo possa far arrivare all’ascoltatore lo spettro emozionale di un artista che si mette a nudo senza risultare artefatto. E se è vero che Achille Lauro non è un cantante perfetto, non è un musicista di conservatorio, ed è molto abile nel perseguire la sua missione di scalaclassifiche, è altrettanto vero che ha una capacità quasi innata di trasferire disagio, rabbia, debolezza ed empatia grazie al suo modo di comunicare in musica.

Una musica che prende tanto in prestito dal passato, spaziando tra vari generi, ma che sa mantenere con grande eleganza (ed un tocco di sfacciataggine) uno stile unico ed indissolubilmente contemporaneo.

Se questa è la nuova musica popolare, piaccia o non piaccia, forse qualcosa sta cambiando. Finalmente.

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